Il 9 gennaio 2013 Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Şaylemez, tre compagne del movimento di liberazione curdo, sono state uccise da un agente dei servizi segreti turchi (MIT) a Parigi, nel cuore della grande Europa “democratica”. Nonostante siano chiari i motivi che hanno portato a questo assassinio, non ci sono ancora verità e giustizia per le nostre compagne.
Queste tre donne, che gli stati occidentali hanno chiamato “terroriste”, avevano deciso di dedicare la loro vita alla lotta per la libertà. Erano bellissime, belle perché libere, belle perché amavano i popoli e le persone, belle perché credevano nella rivoluzione.
Verso la fine di ogni anno, viene fatto un bilancio sulle statistiche di guerra in Kurdistan – come in molti altri luoghi dilaniati da guerre militari e genocidi – e si contano lə martiri. E poco più di una settimana dopo l’inizio dell’anno, arriva il 9 gennaio. Nonostante questi numeri generino un grande dolore, la lotta ci ha insegnato a interpretarli anche in un altro modo.
Speranza è sapere che in tutto il mondo ci sono persone disposte a morire per la libertà, per la vita. E, come ha detto Öcalan, “la speranza è più importante di ogni vittoria”. Le vittorie sono belle, ma finché ci sarà speranza, ci sarà la voglia di lottare per un nuovo sistema.
Contro questo sistema mortifero, la rivoluzione è creare vita; ricordare le martiri significa riportarle in vita, imparare da loro, e prendere forza dalla loro lotta per continuare la nostra.
Queste tre donne sono morte perché tuttə noi potessimo essere liberə. Per questo è nostra responsabilità seguire i loro passi.
Ma queste tre donne sono state assassinate perché il sistema le credeva, a ragione, troppo pericolose. Il sistema sa che la rivoluzione più radicale è quella delle donne*, quella che porta a un cambiamento di mentalità che sradica il potere in ogni sua forma.
E allora questo assassinio lo chiamiamo femminicidio. Un femminicidio politico, mirato a fermare la lotta delle donne* e la loro libertà.
In seguito al 25 novembre e al femminicidio di Giulia Cecchettin abbiamo deciso di discutere e poi mettere per iscritto, alcune riflessioni sul femminicidio, da dove nasce e che ruolo ha nella società. Il 9 gennaio ci è sembrato il momento più giusto per pubblicarlo, per ricordare le nostre compagne e tutte le altre persone morte per mano del patriarcato. Affinché il loro sacrificio non sia vano.
Per Sara, Rojbîn e Ronahî, la nostra lotta deve continuare.
Le origini del patriarcato
Contrariamente a quello che il sistema vorrebbe farci credere, il patriarcato non è sempre esistito; ci sono stati tempi in cui le relazioni tra esseri umani e quelle tra esseri umani e natura non erano determinate dal sistema di potere patriarcale.
Ci sono stati tempi in cui le società erano organizzate in modo orizzontale e democratico, in armonia con la natura.
Queste società, durate fino al Neolitico, sono chiamate matrilineari; si basavano infatti sulla centralità della figura della madre, intesa in senso non solo puramente biologico. I figli delle tribù venivano cresciuti collettivamente e c’era un diffuso senso di mutuo aiuto e solidarietà. Le madri erano coloro che garantivano la coesione sociale e la trasmissione del sapere di generazione in generazione.
Con l’inizio del riconoscimento della paternità e della proprietà privata, la coesione sociale che legava queste comunità iniziò a sgretolarsi; stava cominciando a stabilirsi la cultura del maschio dominante, la cultura del patriarcato.
L’affermarsi della gerarchia trasversalmente alle società ha portato non solo alla presunta superiorità dell’uomo sulla donna, o di alcuni esseri umani su altri esseri umani; si iniziava ad affermare in quel periodo anche l’idea che l’essere umano dovesse dominare la natura. Gli esseri umani smisero di considerarsi parte integrante del mondo che li circondava, iniziando a osservarla dall’esterno, come un’entità potenzialmente sfruttabile.
Con la costruzione delle prime città, come Ur e Uruk in Mesopotamia, e successivamente dei primi stati, le donne vennero definitivamente tolte dalla dimensione collettiva in cui avevano sempre vissuto; l’economia divenne progressivamente appannaggio degli uomini, che avevano maggiori possibilità di vivere all’esterno della casa.
Riconosciamo dunque che, nel corso della storia, il patriarcato è stato il primo sistema di oppressione a imporsi sulla società, non senza resistenza da parte di quest’ultima. La prima parola per “libertà” (amargi), viene inventata proprio nella società sumera: riconosciamo la libertà quando nasce l’oppressione. Amargi significa anche “ritorno alla madre”, ossia alla cultura matrilineare e antipatriarcale.
Dal patriarcato si sono sviluppati colonialismo, razzismo, capitalismo, e così via.
Ancora oggi, il patriarcato determina ogni nostra relazione. Per questo, non possiamo immaginare di costruire un sistema alternativo, democratico, giusto ed ecologico, senza decostruire il patriarcato. Non si tratta semplicemente di parità di genere; decostruire il patriarcato, per tutt*, significa costruire modalità di relazionarsi senza potere, immaginare un nuovo funzionamento della società e della famiglia.
Il patriarcato ai nostri giorni
Oggi possiamo vedere come la mentalità di dominio maschile sia stata applicata in ogni ambito dell’esistenza, e sia diventata dominio dell’essere umano sull’essere umano (colonialismo, oppressione e violenza sulle donne) e dominio dell’uomo sulla natura (distruzione dell’ambiente).
Un esempio estremamente significativo è quello dell’economia. Il termine economia deriva dalle parole greche oikos e nomos, rispettivamente “casa” e “legge”, “regola”: l’economia era dunque interpretata come la gestione delle risorse della casa, intesa anche come città, comunità; economia era organizzare le risorse per soddisfare le necessità di ciascun*. In quanto tale, era un ambito prettamente femminile.
Il capitalismo che vediamo oggi è l’espressione peggiore del patriarcato e delle relazioni di dominio, l’inganno dell’assolutismo della libertà individuale. Öcalan definisce il capitalismo come “antieconomia”; l’accumulazione all’infinito di denaro nelle mani di pochi ha snaturato completamente la natura dell’economia. Le disuguaglianze continuano a crescere; i fondi statali vengono tagliati all’istruzione, alle politiche sociali, alla sanità, per aumentare il budget militare. La guerra, l’espressione più bruta del patriarcato, è oggi il campo in grado di garantire il maggiore profitto.
La guerra alla società viene perpetrata in varie forme; mentre in diverse zone del mondo viene combattuta una guerra militare, in Europa stiamo assistendo a una guerra ideologica totalizzante. È una guerra che impedisce alla società di esercitare la propria capacità di autodifesa, ossia l’autorganizzazione. Peggiorano le condizioni di lavoro, sempre più precario, ed è sempre più difficile organizzarsi per resistere; nel frattempo, il controllo sulle nostre vite, tramite le telecamere per le strade, i dati regalati quando navighiamo online, i nostri stessi telefoni cellulari, diventa sempre più serrato. Persino la nostra presenza su Internet, un mondo che aveva la presunzione di essere un mezzo di democratizzazione, è diventata un modo di fare profitti e controllarci, a costo della nostra privacy e della nostra libertà.
Le società sono sempre più controllate, sempre più militarizzate; secondo l’ultimo rapporto di GreenPeace sull’aumento del budget militare [https://www.greenpeace.org/static/planet4-italy-stateless/2023/11/e4e2e934-arming-europe_it.pdf], l’unico modo per garantire la pace è l’investimento sulle politiche di supporto sociale. Invece, i governi continuano a fomentare la violenza e la diffidenza, sfilacciando sempre di più il tessuto sociale nei loro stessi paesi.
Decostruire il patriarcato
Decostruire il patriarcato è dunque per noi un modo di costruire relazioni lontane dalla violenza, lontane dalla guerra e dalla prevaricazione; significa ricostruire il tessuto sociale, con rapporti basati sull’amore e la fiducia.
Riconosciamo nell’amore romantico un inganno creato dal sistema per dividere ulteriormente le persone. L’ideale di amore che ci viene proposto include gelosia, violenza, isolamento della coppia dal resto della società.
Soprattutto per le donne, trovare una persona che le “completi”, o fare figli, diventa una enorme fonte di pressione, come se dovesse essere il suo unico obiettivo nella vita, e come se, senza questo, la donna fosse di per sé “incompleta”.
Pensiamo che decostruire il patriarcato sia anche rendere di nuovo l’amore una questione non privata. Secondo l’Osservatorio nazionale femminicidi, lesbicidi e transicidi di Non Una di Meno (https://osservatorionazionale.nonunadimeno.net/), in Italia nel 44,2% dei casi del 2023 il femminicidio/lesbicidio/transicidio è avvenuto per mano di partner/marito, nel 15,8% dei casi per mano di un ex partner. La privatizzazione delle relazioni romantiche è uno strumento del sistema per impedire alle donne* di proteggersi con le loro reti sociali.
Questo è l’ideale di amore che ci presenta il sistema.
E noi lo rigettiamo con forza.
Ci impegniamo nella costruzione di relazioni antipatriarcali per un amore secondo canoni libertari e per un’amicizia che ci permetta di crescere costantemente. Pensiamo che le persone libere siano persone buone, e per questo crediamo che lavorare sul potere e sul patriarcato sia un gesto rivoluzionario che possiamo, e dobbiamo, fare ogni giorno.
Il ruolo del femminismo riguardo al femminicidio
Ci capita spesso di sentirci chiedere a cosa serva il femminismo oggi. In un’Europa in cui le donne hanno diritto di voto e possibilità di lavorare (trascurando le premesse su cui ciò si basa), non è sempre facile vedere la necessità di un femminismo radicale.
Per noi il femminismo è una lotta che riguarda tutte e tutti; è una lotta che ci permette di osservare il centro dell’oppressione da vicino, e quindi lavorare sulla sua radice, per poi sradicare tutti gli altri rami malati.
L’oppressione delle donne è un leitmotif comune a tutte le società, a tutte le classi, a tutte le culture. Per questo, la liberazione delle donne permetterebbe una liberazione trasversale, pur tenendo conto e facendo tesoro delle diversità.
Nella nostra visione, il femminicidio non è il gesto di un uomo impazzito; è il frutto di un sistema che ci insegna e ci ricorda costantemente che le nostre relazioni devono essere di dominio e di controllo.
Ma non solo: il femminicidio non è l’uccisione di una singola donna*, è il tentativo costante di annichilire la prima nazione oppressa (le donne), quindi la più radicale, e potenzialmente la più pericolosa per il sistema. Il femminicidio deve essere interpretato in modo molto più ampio; femminicidio è tutto ciò che tenta di uccidere la cultura della dea madre, la cultura democratica. Gli standard di bellezza con cui siamo costrette a confrontarci ogni giorno, sono cultura femminicida; i canoni che ci fanno sentire inadeguate e mai abbastanza, che abbassano la nostra autostima e quindi capacità di difenderci, sono cultura femminicida. Perché dovremmo difendere qualcosa che ci fanno credere che non ha valore?
La complicità delle donne con il sistema
È fondamentale riconoscere che cosa si nasconde, a volte, dietro la parola “femminismo” e chi la usa. Nel mondo sono state mosse guerre usando il pretesto di voler liberare le donne (come per esempio in Afghanistan). Il femminismo liberale, con la sua ideologia riformista, è compatibile con il sistema di potere dominante. La cosiddetta “promozione della democrazia” da parte dell’Occidente, specialmente in territori in conflitto, è portata avanti per mantenere lo status quo, per guadagnare il consenso di una élite e continuare a fare i propri interessi attraverso mezzi indiretti e subdoli. Spesso dietro la retorica dell’“emancipazione femminile” si nascondono decisioni politiche e militari che uccidono migliaia di donne e distruggono intere società, portatrici di cultura e diversità.
Il patriarcato si manifesta in molti modi e uno di questi è il femminismo liberale: le donne non potranno liberarsi se non divenendo una forza autonoma e collettiva che lotta per la giustizia sociale; è inevitabile che la lotta per la liberazione delle donne sia al centro di questa azione. In questo senso, la liberazione delle donne non può passare attraverso la partecipazione alle strutture statali e capitaliste. Esaltare e adorare le donne in posizione di potere significa reiterare l’idea che all’interno di questo sistema le donne possano essere libere.
Per questo, il femminismo non può che essere una lotta profondamente radicale, critica delle forme di organizzazione statali, parastatali, gerarchiche, guerrafondaie e capitaliste. Contro un sistema di uomini vecchi che mandano uomini giovani a morire in guerra, la rivoluzione delle donne è la proposta radicale di un sistema orizzontale, democratico ed ecologico.
Il linguaggio del sistema patriarcale
Le dinamiche patriarcali sono complesse e richiedono un linguaggio che rispecchi tale complessità, ma che al contempo sia chiaro a tutt*, poiché la comprensione del fenomeno nella sua sistematicità è il primo passo per combatterlo.
Sfortunatamente, quando casi di violenza di genere raggiungono la narrazione mainstream, in televisione e sui giornali, questa rappresenta a pieno la negazione della sistematicità del fenomeno e in questo modo nasconde le radici profonde delle cause che portano a questa violenza. Un elemento che salta all’occhio è la giustificazione del carnefice, che si tratti di femminicidio o di stupro, non si fa mai riferimento alla cultura del possesso, per cui le donne vengono viste e percepite come oggetti di cui si può disporre a piacimento. Il culmine della violenza che porta all’uccisione è spesso legato alla volontà della vittima di allontanarsi da quello che nella maggior parte dei casi, almeno in Italia, è un partner o ex, ma sfortunatamente abbiamo visto che può essere qualunque uomo conosciuto.
Quando le donne manifestano la loro libertà e volontà di fare scelte in autonomia devono essere fermate in un modo o nell’altro. Ciò che spesso viene riportato nel dibattito pubblico è una forma di causalità tra l’evento e una qualche colpa della vittima (victim blaiming), che ha portato a un raptus di rabbia o a una reazione a qualche decisione libera presa dalla vittima (come quella di lasciare il suo carnefice). Il caso di Giulia Cecchettin ha sollevato l’opinione pubblica anche grazie alle lucide analisi della sorella. Sfortunatamente ancora una volta assistiamo a dibattiti che non c’entrano il punto neanche lontanamente, e alimentano opinioni fallaci riguardo le cause della violenza di genere. Spesso in televisione si riconducono i femminicidi a una cultura violenta che riguarda solo le epoche contemporanee, facendo semplicisticamente riferimento a una maggiore esposizione alla violenza grazie ai mezzi di comunicazione o ai videogiochi.
Nella realtà la violenza di genere è legata all’oppressione, che caratterizza la società da millenni, del maschile sul femminile, della maggioranza sulle minoranze e dei ricchi sui poveri.
La condizione della donna è cambiata perché le è stato permesso di lavorare, ma tale concessione non mira assolutamente alla liberazione dei generi, ma piuttosto ad alimentare il sistema capitalistico. Quindi anche se oggi le donne possono ricoprire ruoli di leadership, non sono liberate dal loro ruolo soggiogato al genere maschile e perciò alla diffusa cultura del possesso. Il limite della narrazione attuale riguarda anche le testate più liberali, nelle quali il fenomeno viene considerato un’emergenza.
Quando parliamo di emergenza intendiamo un fenomeno improvviso e inaspettato per cui è necessario un tempestivo intervento. In questo caso il fenomeno è, ci teniamo a ribadirlo, sistemico, millenario e riguarda tutt* noi. L’unico intervento possibile è la rivoluzione culturale e dei costumi, che può partire solo dalla presa di coscienza dell’oppressione che quotidianamente ci circonda.
Il maschio dominante e l’uomo libero
Spesso capita che gli uomini si sentano minacciati da frasi come “uccidere il maschio dominante” o “decostruire il patriarcato”, credendo erroneamente che questi concetti significhino uccidere fisicamente gli uomini, o uniformarli a un ammasso di corpi senza personalità e senza varietà. Invece questi concetti esprimono un percorso di liberazione meraviglioso, seppur difficile. Sappiamo infatti che, essendo nati dentro il sistema, ne abbiamo ereditato alcune caratteristiche, modi di comportarci e dinamiche che mettiamo in atto. Tuttavia, se vogliamo costruire una società libera, dobbiamo essere prima di tutto noi l’esempio dei valori di questa nuova società; per questo motivo, è necessario operare un processo di decostruzione di quegli aspetti delle nostre personalità che appartengono al sistema dominante.
In questo senso, “decostruire” ha un significato estremamente positivo: significa infatti portare alla luce la nostra vera personalità, nei suoi aspetti liberi e non oppressivi.
Una rivoluzione non può che essere un processo estremamente lento, che implica una trasformazione della società; senza questo, una presa di potere di un qualunque movimento, per quanto libertario, non farebbe altro che replicare tutti i sistemi di dominazione che portiamo dentro di noi.
Nasce quindi spontanea la domanda: che cosa significa essere un uomo libero?
Öcalan ha detto che “né con le donne in schiavitù né con i maschi dominanti è possibile fare una rivoluzione”. Gli uomini sono assimilati dalla cultura egemonica, ammirano e allo stesso tempo temono il potere dello stato. Per il movimento di liberazione della donna curdo, che non crede che i maschi siano in grado di cambiare da soli (in quanto lo stato, il capitalismo e il patriarcato riproducono la dominazione maschile), la trasformazione del maschio è stato e continua a essere un compito strategico; per questo ha avviato programmi di formazione per i membri del suo esercito, in cui si studiano la storia delle donne, il sessismo, la mascolinità, la concezione patriarcale di amore e onore. Questo ha portato i combattenti a esprimere empatia, cura, amicizia non basata su dinamiche di potere, vulnerabilità e attenzione alla collettività. Il maschio liberato incarna una personalità più etica, umana, dinamica.
Che cos’è una donna libera
Nelle parole di Şehid Bêrîtan, una combattente del PKK simbolo della resistenza: “Chi combatte sarà libera, chi è libera sarà bella, e chi è bella sarà amata”.
Non possiamo dare una definizione unica di cosa sia una donna libera; infatti, libertà non è ricadere in un canone o essere all’altezza di alcuni standard. Pensiamo che una donna che lotta per decostruire il sistema dentro di sé sia una donna libera; una donna che lotta per costruire un’alternativa è una donna libera.
Una donna libera è anche una donna che lotta perché altre donne intorno a sé possano liberarsi; crediamo infatti che libertà, per quanto sia un concetto complesso da definire, possa esistere solo se collettiva. In un sistema che ci vuole continuamente separare e isolare le une dalle altre, è necessario invece essere un fronte unito, che non lasci indietro nessuna. Perché, come ha detto Audre Lorde, “Non sarò libera finché ogni donna non sarà libera, anche se le sue catene sono molto diverse dalle mie”.
Organizzarsi
La coscienza collettiva delle donne porta dentro un dolore centenario. Da quando possiamo ricordare, le donne sono state stuprate, violentate, utilizzate come terreno di battaglia e uccise per “onore”.
Le donne non sono ricordate dalla storia, né come individui – pensiamo a tutte le scienziate, filosofe, matematiche, artiste che non vengono nemmeno menzionate – né come comunità. L’unico momento storico degno di nota è quello della caccia alle streghe, che di fatto racconta di un femminicidio di massa.
Oggi, il femminicidio viene narrato come il gesto di un pazzo, sminuendo le ragioni storiche e sociali che portano, in Italia nel 2023, all’uccisione di una donna una volta ogni 3 giorni in media.
Siamo addolorate, e siamo arrabbiate. Non possiamo negarlo. E non dobbiamo negarlo.
Tuttavia non possiamo permettere che questa rabbia si consumi e consumi anche noi; la nostra vendetta deve essere rivoluzionaria. Dobbiamo superare l’isolamento che questo sistema continua a instillare in noi, e far nascere dei fiori dalla nostra rabbia.
Non siamo sole. E pensare che lo siamo significa fare il gioco del sistema.
Il gesto più potente che possiamo fare è organizzarci per costruire un’alternativa; non è sufficiente urlare che siamo contro il patriarcato, che siamo contro il sistema. Dobbiamo iniziare a costruire l’alternativa dal basso, il nostro mondo libero. Dobbiamo iniziare da noi, dalle nostre amiche e compagne, dalla nostra famiglia. La migliore forma di autodifesa è l’organizzazione.
La nostra autodifesa deve essere la creazione di una teoria e conseguente pratica femminista che sia in grado di dare un nome al nostro dolore, e farlo passare, come diceva già diversi anni fa Bell Hooks.
Rete Jin Milano

Lascia un commento